Sabato 25 marzo ho avuto il piacere di partecipare a “Personal Branding al Buio”: una preziosa occasione per lavorare sulla presentazione del sé, riscoprendo l’importanza dell’ascolto e imparando che un apparente ostacolo (l’impossibilità di vedere) può aprire a un universo di opportunità.
25 marzo: è una mattina azzurra, calda, di quelle che a inizio primavera ancora ti sorprendono. È un sabato mattina e mi aggiro per l’edificio di Sant’Agnese in attesa dell’evento. Sono quasi le 9:30 quando al piano seminterrato, davanti al Laboratorio Apollonio, incontro altri sei studenti, non solo di CIMO. Ci accolgono le Career Adviser, la dottoressa Sara Colasanto, la dottoressa Paola Pizzingrilli, il professor Giancarlo Abba (docente di Problematiche educative per persone non vedenti presso l’Università Cattolica) e il dottor Antonino Cotroneo (tifloinformatico, esperto di Tecnologie Assistive). Ancora non sappiamo cosa ci aspetta: che la stanza, per un’ora e mezza, sarà davvero solo buio, tatto e voce. Sono curiosa, un po’ agitata. Ci chiedono di abbandonare borse, giacche, zaini e occhiali da vista per immergerci nell’esperienza liberi da qualsiasi vincolo – da qualsiasi appiglio al quotidiano.
Personal Branding al Buio si apre con lo spaesamento di chi non è abituato a non vedere. L’oscurità abbraccia i nostri sensi e ci lascia addosso un senso di privazione che, alla fine dell’esperienza, considereremo una ricchezza. Il professor Abba e il dottor Cotroneo ci accompagnano per mano nel teatro per farci strada nello spazio e per aiutarci a disporci sulle gradinate. A una breve descrizione di come si strutturerà l’incontro, segue la prima attività.
Ci vengono consegnate delle tavole, che poi scopriremo essere bianche e che – a un primo tocco – sembrano essere in materiale plastico. Sulle tavole sono riportate alcune figure in rilievo che dobbiamo percorrere con le mani per capire cosa rappresentano. Le dita inciampano tra bordi e superfici differenti: che cosa sto sfiorando? Difficile a dirsi. Comprendere è una sfida contro il tempo a disposizione, allo scadere del quale ci viene chiesto di condividere cosa pensiamo di star indagando: un animale, un oggetto, una cartina geografica, un monumento?
Come sottolinea il professor Abba, la circostanza ci impone di attivare tutti i sensi che talvolta ci capita di trascurare, ascolto e tatto in primis. L’ascolto, in particolare, ci serve sia per individuare gli altri partecipanti nell’aula, sia per capire cos’abbiano tra le mani, in base alle loro descrizioni. In più, un feedback sulla nostra titubanza ci spinge a essere più sicuri, più convincenti quando parliamo, anche se stiamo sbagliando: questo sarà utile quando dovremo varcare le soglie del mondo del lavoro.
Proprio all’ingresso nel mondo del lavoro è dedicata la seconda attività: sono volontaria per fare una simulazione di colloquio con le Career Adviser, sempre al buio. Non so dove si trovino, so solo che sono davanti a me: me ne accorgo dalla loro voce. La mancanza della vista rende più complesso avere il controllo della situazione, calibrare le mie reazioni. Alle prime domande, legate al mio percorso universitario e professionale, rispondo tenendo a mente la struttura del mio CV. Nei quesiti di logica, invece, sono chiamata a mettermi in gioco, anche su argomenti legati alla contingenza. Tu come descriveresti il colore azzurro a una persona non vedente? Io ho un po’ faticato a trovare la soluzione, ma forse tu saprai darmi qualche spunto per la prossima volta.
Alla fine, si riaccendono le luci: notiamo che i docenti e le Career Adviser sono dall’altra parte della stanza, contro la parete, e che tra le mani abbiamo le immagini più disparate. Alcuni confermano la loro ipotesi, altri sono colti di sorpresa. Indipendentemente dall’esito della scoperta, sappiamo che ci siamo divertiti, e che abbiamo avuto l’opportunità di sperimentarci nella totalità dei nostri sensi. Ora sappiamo che un limite iniziale può essere un trigger per la creatività, e che dietro un apparente ostacolo, se guardiamo bene, troviamo un universo di possibilità.