La “Z” russa, utilizzata dal Cremlino, dal popolo e dai soldati russi come simbolo sostenitore della guerra in Ucraina, continua ad apparire su divise militari, carri armati e questa volta anche sui palazzi del centro di Mosca, dove un’enorme Z è affissa su un edificio del centro.
L’utilizzo di questo simbolo sull’edificio russo ha stimolato questa seconda riflessione sull’impiego e sulla natura della «Z» russa, che risulta di particolare interesse non tanto per quanto espresso negli articoli che accompagna (entrambi de La Repubblica Online, uno di Paolo Di Paolo, l’altro un video di proprietà di ANSA) i quali tendono a enfatizzare la dimensione simbolica della Z, secondo quel procedimento cui già s’accennava nel precedente scritto.
Dunque, non è interessante tanto per gli aspetti di proliferazione del segno-simbolo e per la sua vasta apparizione in più punti della città di Mosca e nelle proprietà private russe, né per un suo raffronto con altri simboli. La Z «non è una trovata pubblicitaria, un logo alla moda. È già un’arma», come scrive Paolo di Paolo.
Il discorso che entra attualmente in opera scorre per binari leggermente deviati e parte da una qualità materiale del segno: i colori che contraddistinguono questa Z sul palazzo russo sono i medesimi del nastro di S. Giorgio, massima onorificenza militare in uso presso l’organismo bellico russo. Il collegamento “storico” è fin troppo scoperto: da massimo conferimento in epoca zarista, viene a rappresentare il sacrificio e la vittoria contro il nazismo, per essere poi ufficiosamente utilizzato nella guerra del 2014 risultata nell’annessione della Crimea. Infine, come ben sappiamo, ad oggi la retorica del Cremlino ha insistito a più riprese sul tema della “denazificazione” dell’Ucraina.
La riflessione portata avanti in questi articoli aveva preso le mosse dall’analisi semiotica di un segno veramente anonimo, vuoto, arbitrario, privo anche della qualità cromatica – essendo la Z inizialmente dipinta sui mezzi militari bianca – qualità che tanto per il mitologo quanto per il consumatore di miti.
Voglio dunque provare a spiegare questa contiguità mitica fra segni che la propaganda russa apparentemente espone, per riconfermare una volta di più la lezione di Roland Barthes quando asseriva che: «La significazione mitica, invece, non è mai completamente arbitraria, è sempre in parte motivata, contiene fatalmente una parte di analogia: perché l’imperialità francese si impadronisca del negro che saluta, occorre un’identità tra il saluto del negro e il saluto del soldato francese».
Si conferma, dunque, un’altra intuizione del nostro maître à penser: «La semiologia ci ha insegnato che il mito ha il compito di istituire un’intenzione storica come natura, una contingenza come eternità»: l’analogia fra simboli che sfocia in una contaminazione dell’uno e dell’altro non è certo cosa nuova, ma è utile precisare quale sia il suo scopo. La retrodatazione ad infinito del mito: il mito nasce da un concetto storico, da una contingenza, ed è volto a sovrapporre a questa esistenza temporale la sua atemporalità naturale: “così è, perché è sempre stato”. Avevamo correttamente individuato sotto le spoglie del simbolo Z l’esistenza di un sistema mitico, e infatti «L’elaborazione di un secondo sistema semiologico consentirà al mito di sottrarsi al dilemma: ridotto a svelare o a liquidare il concetto, esso si risolve a naturalizzarlo. Siamo di fronte al principio stesso del mito: il mito trasforma la storia in natura».
Ora, con l’allignamento del significante nella storia russa il sistema semiologico compie un passo ulteriore e decisivo: confrontiamo quanto scritto da R.B.: «Nel caso del negro-soldato, per esempio, svuotata non è certo l’imperialità francese (tutt’altro, è ben questa che bisogna rendere presente), ma la qualità contingente, storica, fabbricata insomma, del colonialismo. Il mito non nega le cose, anzi, la sua funzione è di parlarne, le purifica, le fa innocenti, le istituisce come natura e come eternità, dà loro una chiarezza che non è quella della spiegazione, ma quella della contestazione. Se io constato l’imperialità francese senza spiegarla, mi ci vuole ben poco per trovarla naturale, qualcosa che va da sé: ed eccomi rassicurato».
Di nuovo, tutto è in evidenza, il mito si mette in mostra («Per quanto possa sembrare paradossale il mito non nasconde nulla: la sua funzione e di deformare, non di far sparire»): la Z afferma in fondo che l’imperialismo russo va bene, non è sbagliato – in primis ai russi – perché è così da sempre, è naturale, ed in esso risiede la grandezza della madrepatria.
La battaglia “mediale” che i russi giocano sulla difensiva essendo naturalmente sotto il tiro degli occidentali, vede dunque un’ulteriore controffensiva.
Finalmente, un conclusivo appunto: la proliferazione del segno, questo moltiplicarsi cui si accennava in apertura dello scritto è sì un tratto costitutivo del mito/segno stesso, ma anche un suo prodotto: una volta ch’esso viene naturalizzato, infatti, viene anche spontaneo adoperarlo.
Giulio Montagner