Nomade, per definizione: «Tradizionalmente o naturalmente alieno dalla consuetudine dell’insediamento stabile; che cambia spesso residenza o è senza fissa dimora».
Non c’è nulla di spregiativo in questa descrizione, nulla che definisca questo stile di vita come negativo, sbagliato, inadatto. Eppure quanto spesso capita di sentirsi riferire a queste persone in modo ostile, quante volte il loro modo di vivere viene assimilato a qualcosa di pietoso, deprimente da tutti coloro che si considerano “normali” perché vivono in una casa con delle fondamenta, un tetto, un giardino… Quanti si sono mai chiesti davvero che cosa spinga qualcuno a percorrere questa via, se questa gente sia felice, se avrebbe mai voluto vivere differentemente o se invece abbia trovato il giusto equilibrio nel suo peregrinare.
Forse è proprio per rispondere a tutte queste domande, per raccontarci in maniera vera e pura di una fetta di umanità troppo spesso marginalizzata, che la regista cinese Chloé Zhao ha deciso di realizzare il suo Nomadland. Vincitore del Leone d’oro alla 77a Mostra Internazionale del Cinema di Venezia e di ben tre Premi Oscar, Nomadland è un film che ci restituisce il ritratto dei nostri tempi precari, dell’infrangersi del famoso “Sogno Americano”.
Fern, la donna protagonista del film, è frutto dell’immaginazione degli autori, ma il mondo in cui si muove, quello no, esiste davvero. É un mondo fatto di tante storie che si intrecciano, un mondo fatto di van, di lavori saltuari, un mondo solidale in cui ci si abitua a condividere tutto, dove non esistono gli addii, ma dove si fanno anche i conti con la solitudine, la malinconia, il freddo, il caldo, i migliaia di chilometri. La regia è riuscita perfettamente nell’intento di unire questa dimensione collettiva del vivere on the road, con il senso di isolamento che questa implica e l’ha fatto in maniera spontanea, non narrativa.
Nomadland somiglia per certi versi ad un documentario perché non ha la pretesa di giudicare un modus vivendi, ma solo la volontà di raccontarlo e questo si deve anche ad una scelta di ripresa ben precisa che ha portato la troupe a girovagare per decine di giorni tra Nevada, Arizona, Nebraska, California e South Dakota girando gran parte delle scene improvvisando, facendo interagire il personaggio principale con le persone incontrate per strada.
La maggior parte degli attori, fatta eccezione per Frances McDormand (Fern) e David Strathairn, sono membri delle comunità nomadi che si muovono nella provincia americana e che sono cresciute soprattutto dopo la forte crisi economica del 2008 a causa della quale molti cittadini statunitensi hanno perso tutto e hanno dovuto reinventarsi e abbandonare la dimensione stanziale cui erano abituati. Fern fa esattamente parte di questo gruppo, costretta a lasciare Empire, la città dove per anni ha vissuto con il defunto marito Bo (il codice postale di Empire viene dismesso nel 2011 dopo la chiusura della miniera di gesso), trasforma il suo minivan nella sua dimora e parte alla ricerca di una nuova “promise Land”, di una nuova stabilità che non troverà mai più dentro quattro mura.
Attraverso i viaggi compiuti dalla protagonista, lo spettatore esplora la sconfinatezza degli Stati Uniti, dei loro paesaggi, ma soprattutto riesce a toccare con mano la realtà di migliaia di uomini che per necessità, o per scelta, si dividono tra la libertà offertagli dalla natura e la schiavitù del sistema economico contemporaneo che li porta in ogni caso a doversi “guadagnare il pane” per sopravvivere (questa contrapposizione è esplicitata nel miglior modo possibile nelle scene in cui vediamo la protagonista ed alcuni compagni lavorare come operai per il colosso Amazon nel periodo che precede le feste natalizie).
Nomadland è un film che ci spinge ad interrogarci sul senso dell’esistenza, che ci fa compiere un viaggio reale e simbolico insieme alla sua protagonista attraversando luoghi che celebrano la gioia, il dolore, la speranza, il ricordo. Le musiche del maestro Ludovico Einaudi, che si combinano con quelle della tradizione americana, ci accompagnano in questo vagabondare ed enfatizzano gli stati d’animo che le immagini evocano.
Insomma, questa pellicola non ha solo meritato tutti i premi vinti, ma ci offre anche un’opportunità di rilettura e di riscoperta di una nazione intera, della sua cultura, dei suoi fantasmi.
Sofia Contini