Un volto davanti a noi, gli occhi che ci guardano e le labbra che ci parlano: non è un film horror o di suspance, né tantomeno il fermoimmagine di uno spot pubblicitario o una fotografia. Non siamo in una sala cinematografica o in uno studio di registrazione: siamo semplicemente a casa nostra.
Siamo davanti al nostro computer, con lo schermo aperto e con uno o più interlocutori che si relazionano con noi: forse siamo in didattica a distanza, forse in telelavoro, forse impegnati in un colloquio o in una call con i nostri familiari o addirittura stiamo festeggiando il compleanno di un amico. Di certo siamo connessi in un universo relazionale che ormai da qualche tempo, sia per problemi sanitari sia per velocità comunicativa, è diventato l’habitat più “naturale” per le nostre attività “in compagnia”.
Evitando di intervenire nella vexata questio della triste virtualità delle relazioni da remoto e dell’inevitabile vantaggio delle stesse in particolari momenti della vita e/o della giornata, si vuole qui semplicemente ricordare che, se “il medium è il messaggio”, la modalità di comunicare che il medium impone crea conseguenze fisiche e psicologiche in ognuno di noi: sappiamo bene che dopo ore davanti allo schermo siamo stanchi, affaticati e sappiamo anche quanto sia pesante sopportare interscambi solo virtuali e artificiosi.
Ma forse non tutti si rendono conto che l’affaticamento e lo stress psicofisico, sintetizzato nella formula Zoom-fatigue, determinato dal progressivo aumento delle relazioni tramite computer, o qualunque altro device, parte dalla nostra stessa postura e collocazione davanti allo schermo.
Innanzitutto, come ben spiega il neuropsicologo G. Riva in un suo articolo, la separazione spaziale tra emittente e destinatario non permette l’attivazione di quei “neuroni GPS” (cellule cerebrali) che, come un navigatore, si attivano quando ci muoviamo all’interno di uno spazio e contribuiscono alla formazione e al consolidamento della nostra “memoria autobiografica” individuale. Privi di riferimenti spaziali, perché in videocall di Meet, Zoom, Teams, siamo catapultati in “non luoghi”, in spazi non reali che disorientano, facendoci credere di essere in un perenne e straniante hic e nunc.
D’altra parte, il perdurare della comunicazione solo attraverso la visione del volto, spesso troppo ravvicinato, crea una relazione artificiosa e in alcuni casi disturbante, perché innaturale e priva di tutti quei segnali non verbali (legati soprattutto alla prossemica) che sono, invece, determinanti in ogni relazione interpersonale: è vero che quando si è in presenza ci si guarda in viso, ma non continuamente, perché lo sguardo spazia intorno e l’attenzione si sofferma su più punti diversi; allo stesso modo, i volti non sono mai così ravvicinati e amplificati come in una videocall, ma in presenza sono a debita distanza, segno del rispetto dell’identità altrui e della propria.
E ancora la centralità del viso fa dell’interlocutore un individuo “senza corpo”, privo della sua totalità e complessità: il corpo con gesti, atteggiamenti, movimenti, alzandosi, camminando, sedendosi, “parla”, integra il linguaggio verbale, a volte lo contraddice addirittura e manda segnali e ulteriori informazioni. Tutto questo è negato in una videocall e, ridotti a teste parlanti, ci annebbiamo nella nostra identità monca, di conseguenza ci stressiamo e ci affatichiamo.
E questo è tanto più pesante quanto più nelle videochiamate, soprattutto in quelle di lunga durata, attiviamo anche la nostra immagine sullo schermo: ci specchiamo in noi stessi, ci guardiamo parlare, ci osserviamo ma non siamo soli, e così la nostra attenzione oscilla di continuo tra noi e gli altri, tra il nostro volto e i volti altrui, creando un surplus di stress e straniamento.
E poi, cosa non da poco, viviamo in una dimensione che è quasi esclusivamente bidimensionale: la profondità di campo ci sfugge, la tridimensionalità è sfumata, la mente e il corpo si appiattiscono negli strumenti tecnologici. Flatlandia, romanzo di Abbott del 1884, era un mondo a due dimensioni, ma allora nessuno poteva immaginare che potesse diventare realtà… anche se solo virtuale.