Ci stiamo davvero trasformando in giustizieri della rete?

Nel libro “So you’ve been publicly shamed” (edito in italiano con il titolo “I giustizieri della rete. La pubblica umiliazione ai tempi di internet”), Jon Ronson conduce un’indagine brillante e provocatoria sul fenomeno dell’online shaming.

Nonostante il libro sia stato pubblicato nel 2015, i temi trattati risultano più che mai attuali. Ronson afferma che sui social network, in particolar modo su Twitter, si assiste ad un ritorno all’uso dell’umiliazione pubblica come strumento punitivo. Si tratta di una pratica, molto comune nel Medioevo, che prevedeva che i malfattori venissero messi (letteralmente) alla berlina. Accanto a loro veniva posto un cartello che indicava il loro nome e il reato di cui erano accusati, mentre i cittadini erano autorizzati ad infierire sul colpevole e ad umiliarlo.

Allo stesso modo, sui social media accade sempre più spesso che gli utenti mettano alla gogna e insorgano contro coloro che sono colpevoli (o presunti tali) di aver pronunciato affermazioni giudicate sconvenienti. Gli episodi di online shaming, data l’assenza di barriere spaziali e temporali che caratterizza il web, assumono una risonanza globale, e ciò naturalmente comporta un aumento esponenziale del numero di persone che prendono parte (o assistono inermi) all’umiliazione.

Il libro si apre con il resoconto di una vicenda che ha per protagonista lo stesso autore, il quale, di fronte al rifiuto da parte di alcuni ricercatori di eliminare l’account Twitter con il quale stavano conducendo un esperimento sociale spacciandosi per Ronson, decide di farsi giustizia da solo. Pubblica quindi su YouTube il video dell’incontro con i ricercatori, che vengono inevitabilmente travolti da innumerevoli insulti e sono costretti ad interrompere la loro indagine.   

Successivamente lo scrittore passa in rassegna le esperienze di diverse persone finite nell’occhio del ciclone per motivi differenti che spaziano da tweet infelici, come quello postato dall’ormai celebre Justine Sacco prima che il suo aereo decollasse (“Going to Africa. Hope I don’t get AIDS. Just kidding. I’m white!”) alle dichiarazioni falsamente attribuite a Bob Dylan, come nel caso del giornalista Jonah Lehrer, colpevole inoltre di aver auto-plagiato alcune delle proprie opere.

Secondo Ronson, le storie di public shaming che vengono prese in esame nel libro hanno un fattore comune: l’aver come protagonisti persone ordinarie che diventano i bersagli dell’ira collettiva del web, con conseguenze che hanno un impatto non solo sulla propria reputazione, irrimediabilmente compromessa, ma anche sulla loro carriera professionale e, non da ultimo, sulla loro salute mentale.  

Ma cosa accade quando sono i personaggi pubblici, e non le persone comuni, a ritrovarsi nel bel mezzo di una bufera mediatica? Se è vero che la notorietà garantisce numerosi benefici, è innegabile però che chi si trova sotto i riflettori è chiamato a prestare grande attenzione a ciò che fa, ma soprattutto a ciò che dice

Ciò vale soprattutto per chi fa dell’uso dei social network il proprio lavoro: si pensi ad Imen Jane, co-fondatrice di Will Media e divulgatrice in ambito economico, investita da una vera e propria crisi reputazionale a giugno 2020, in seguito alla diffusione della notizia che, diversamente da quanto avesse più volte dichiarato, non era realmente in possesso di una laurea. In questo caso, l’ondata di indignazione non si è fatta attendere e, oltre a colpire la diretta interessata, ha inevitabilmente coinvolto anche la redazione di Will

In un TED Talk Ronson argomenta che, se inizialmente i social network apparivano come degli strumenti democratici in grado di offrire a chiunque la possibilità di far sentire la propria voce, oggi non sembra più essere così. Parlando della situazione odierna afferma: “stiamo creando una società della sorveglianza in cui il modo più intelligente per sopravvivere è tornare ad essere senza voce»

Stiamo davvero utilizzando l’umiliazione pubblica come strumento di controllo? O il nostro accanimento nei confronti di chi compie passi falsi è giustificato? Come sempre, al web l’ardua sentenza!

Chiara Maria Macrì