TRA TELECAMERE, SANGUE E SPETTACOLARIZZAZIONE DELLA VIOLENZA: IL RITORNO DI HUNGER GAMES

In un futuro distopico 24 ragazzi partecipano ad un feroce reality che ha una sola regola: uccidi o muori – per vincere e tornare a casa uno di loro dovrà uccidere tutti gli altri. Con La ballata dell’usignolo e del serpente, prequel debuttato lo scorso 19 maggio e già best seller, gli Hunger Games sono ufficialmente tornati.

Il 14 settembre 2008 approdava nelle librerie americane il primo capitolo di una trilogia che di lì a qualche anno sarebbe esplosa in termini di popolarità a livello planetario: The Hunger Games, nata dalla penna di Suzanne Collins, è una saga pioniera nel campo del genere distopico unito al filone narrativo young adult, a cui sono seguiti altri best seller come Divergent, The Maze Runner e molti altri. Con all’attivo la traduzione in ben 26 lingue, Hunger Games è ormai un cult che ha stregato il mondo intero anche grazie alla fortunata trasposizione cinematografica che consacrato al successo la talentuosa Jennifer Lawrence

Nella trilogia osserviamo Panem – nazione tecnologicamente avanzata, sorta sulle ceneri di un luogo anticamente conosciuto come Nord America e divisa tra una capitale sfarzosa e 12 Distretti ridotti alla fame – attraverso gli occhi di Katniss Everdeen, sedicenne che si offre come volontaria agli Hunger Games pur di salvare la sorella. A tutti gli effetti l’ennesima vittima di un sistema che ogni anno esige due Tributi in carne e ossa da ogni Distretto, Katniss finisce per accendere involontariamente la scintilla della rivoluzione che culminerà nella destituzione del Presidente Snow e nella conclusione definitiva dei Giochi.

La ballata dell’usignolo e del serpente ci fa invece fare un salto nel passato, 64 anni prima dell’inizio della trilogia, e soprattutto mostra un punto di vista inedito: quello degli oppressori. Protagonista del prequel è infatti Coriolanus Snow: antagonista spietato e dalle motivazioni sfuggenti in Hunger Games – in cui appare realmente in appena una manciata di pagine, ma la cui ingombrante presenza si manifesta sotto forma di minacce e rose profumatissime – viene qui presentato come un ambizioso diciottenne della ricca Capitol City, pronto a tutto per ottenere il futuro che crede di meritare. Lungo tutto il suo arco narrativo leggiamo di un ragazzo in bilico tra due estremi – amore ed egoismo, amicizia e tradimento, verità e apparenza – eppure non c’è alcun tentativo di redimerlo dalle sue colpe: la Collins spiega l’evoluzione e le ragioni alla base del suo agire, ma alla fine Snow rimane coerente con se stesso e con il personaggio machiavellico che avevamo imparato a conoscere. 

Con lui ritroviamo anche gli Hunger Games, che alla loro decima edizione sono dei Giochi molto diversi rispetto a quelli conosciuti da Katniss: la cruda spettacolarizzazione della violenza è solo agli albori e il governo, reduce da una guerra civile, si affida agli allievi dell’Accademia per rendere lo show più accattivante e “popolare” e per fare da mentori ai Tributi. Ironicamente, il nome di Katniss riecheggia già nel Tributo a cui Snow è costretto a fare da mentore – ancora una volta la ragazza del Distretto 12 – e nei tanti piccoli rimandi che strizzano l’occhio ai fan della saga, dall’erba saetta alle ghiandaie imitatrici.

L’architettura dei futuri Hunger Games viene abbozzata in queste pagine: vediamo nascere gli sponsor e le scommesse su chi sarà l’ultimo a rimanere in vita, ma allo stesso tempo siamo resi partecipi dei dubbi che assalgono diversi personaggi, Snow in primis: qual è il confine della violenza da cui è impossibile tornare indietro? E perché sono nati gli Hunger Games? 

In parallelo al plot narrativo si sviluppa infatti una riflessione più profonda sulla natura umana e su quello che percepiamo essere necessario per la nostra sopravvivenza. Già nel XVII secolo Thomas Hobbes parlava dello stato di natura in cui versano gli uomini, della perenne lotta per la sopravvivenza improntata sul concetto di homo homini lupus e della necessità di creare un mostro – il Leviatano – per mantenere la pace e l’ordine. Molte delle considerazioni dei personaggi di questo libro tradiscono una visione del mondo assai simile a quella del filosofo britannico: nell’ottica dittatoriale di Capitol City, gli Hunger Games non sono altro che un modo per rammentare ai propri cittadini cosa accadrebbe se gli uomini venissero lasciati nuovamente in balia di se stessi – il caos insanguinato in cui è destinata a sprofondare la civiltà. Suzanne Collins, insomma, invita ancora una volta a riflettere su grandi temi esistenziali: libertà e oppressione, pace e violenza, moralità e ipocrisia.

In definitiva, libro consigliatissimo a chi ha voglia di tuffarsi ancora una volta nello strepitoso e terrificante universo alternativo creato dalla Collins e di scoprire l’origine degli Hunger Games. E che la fortuna possa essere sempre a vostro favore!

Paola Galbusera