Roman Polanski rappresenta sul grande schermo la vicenda storica dell’Affare Dreyfus, rifacendosi al genere della spy story.
Parigi, 1894. Il maggiore Henry, capo dell’ufficio di controspionaggio francese, entra in possesso di una lista di informazioni riservate offerte da una spia anonima ai tedeschi. Ben presto, sulla base di una somiglianza calligrafica, viene accusato il maggiore di origini ebree Alfred Dreyfus di alto tradimento. Nonostante l’impegno del protagonista, il generale Picquart, per dimostrare l’innocenza dell’accusato, egli viene condannato ed esiliato. Ciò causerà la divisione dell’opinione pubblica francese e la pubblicazione della famosa lettera intitolata “J’accuse” (Io accuso) firmata dall’intellettuale Émile Zola all’allora Presidente della Repubblica Francese Félix Faure, in difesa di Dreyfus. Il caso Dreyfus avrà una risoluzione positiva: la vera spia, il generale Estherazy, sarà incriminata e Alfred Dreyfus sarà dichiarato innocente, ma non prima del 1906 e non senza numerose vicissitudini.
Tra spionaggio, controspionaggio, accuse e duelli, Roman Polanski ha confezionato due ore di pura suspence storica, costruendo il film, Gran Premio della Giuria alla Biennale di Venezia 2019, su una vicenda intricata quanto controversa, che richiama antisemitismo, discriminazione ed errori giudiziari.
Impossibile poi non provare simpatia per il protagonista del film, il Generale Picquart, interpretato da Jean Dujardin. Un uomo che sembra distinguersi dai suoi colleghi dimostrando un’integrità unica e decisamente poco apprezzata da molti dei suoi superiori. Egli continuerà a lottare perché la verità venga a galla, anche a costo di finire in prigione. Ma soprattutto, Picquart è un uomo che riesce a superare i propri pregiudizi e le proprie convinzioni, rifiutando di giudicare Dreyfus sotto la luce dell’antisemitismo, tanto diffusa nella Francia di fine ‘800.
Lucrezia Savino