Da poco vincitrice di ben quattro Emmy Awards (come miglior serie commedia, miglior attrice protagonista, regia e sceneggiatura per una serie commedia), “Fleabag” è un prodotto della BBC che racconta una semplice storia: quella di una ragazza londinese anticonvenzionale alle prese con la sua vita disastrosa. Ma c’è molto di più, e tutti sembrano essersene accorti.
Dopo essere stata mandata su BBC Three e poi approdata su Amazon Prime Video, la serie si compone di due stagioni e ha ricevuto molteplici responsi positivi sia dalla critica che dal pubblico. La protagonista Fleabag (letteralmente “sacco di pulci”), interpretata da Phoebe Waller-Bridge, è al centro di un dramedy che narra la storia di una trentenne single, caotica, spesso politicamente scorretta, e con un profondo sarcasmo che sfodera ogni qual volta ritiene opportuno.
La particolarità principale sta nel suo forte impatto narrativo: la rottura della quarta parete è un elemento costante in tutte e due le stagioni, attraverso il quale la protagonista ci fa entrare nella sua testa, facendo commenti sarcastici, anticipando le battute di altri personaggi, raccontando aneddoti e confidandosi.
É evidente quindi la volontà di creare una relazione stabile con l’audience, la quale entra in prima linea nella vita di Fleabag e si fa carico delle sue angosce, mai dichiarate apertamente; è un rapporto strettamente unilaterale, ma talmente speciale ed esclusivo che nemmeno gli altri personaggi si accorgono della cosa.
Così questo monologo, fatto di continue interlocuzioni alla telecamera, si fa testimone di quella che sembra essere una perenne e agghiacciante solitudine, attraverso la quale Fleabag ci racconta con un’ironia tagliente i suoi disagi, la sua malinconia, la tristezza e la disperazione che stanno dietro ad un evento tragico (il suicidio della migliore amica), ancora non del tutto metabolizzato.
La commedia in superficie, evidente in elementi stereotipati come la famiglia, accompagna questa sensazione di malessere e funge da filtro ad un mondo grottesco più profondo, portando così sullo schermo un’afflizione in chiave moderna, sensazione che poi sembra mutare in un riscatto. Infatti, se prima vediamo in atto un processo di autodistruzione della stessa protagonista, fatto di battute schiette e dirette, di relazioni casuali e tensioni con la sua stessa famiglia (lasciando l’amaro in bocca allo spettatore alla fine di ogni puntata), nell’ultima stagione si racconta di una rinascita, anch’essa travagliata e tortuosa, fatta di un amore impossibile per un prete fuori dal comune, di un riavvicinamento con la sorella e dalla seconda occasione che viene data alla sua vita lavorativa.
Tra i volti più noti citiamo Andrew Scott, il cattivo per eccellenza nella serie britannica di successo “Sherlock”, e l’attrice pluripremiata Olivia Colman, che vedremo tra poco nei panni della regina Elisabetta sugli schermi di Netflix. Questi nomi, insieme ad un insieme di altri personaggi, costruiscono intorno a Fleabag una filiera di soggetti stereotipati e ben delineati (la matrigna antipatica, il padre inetto, la sorella competitiva ed introversa, il ragazzo bello e impossibile ecc.), realizzando un dipinto narrativo realistico e allo stesso tempo tragicomico.
Insomma, questa serie irrompe letteralmente con il suo linguaggio irruento e coraggioso, imponendo una struttura narrativa dinamica il cui significato deve essere colto dagli sguardi e non dalle parole; Fleabag così diventa un personaggio unico nel suo genere, capace nella sua leggerezza di trasmettere con l’arma della battuta molteplici spunti di riflessione.
Chiara Lenisa