COME IL PERCORSO UNIVERSITARIO PUÒ AIUTARE A SVILUPPARE LE SOFT SKILLS. Intervista a Roberto Reggiani

Roberto Reggiani è Coordinatore Responsabile dell’Ufficio Stage e Placement presso la sede di Milano dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Da 25 anni si occupa di sviluppare i servizi universitari di supporto all’intermediazione del lavoro, operando a stretto contatto con gli studenti. Conosce bene i giovanissimi e sa che la chiave per il successo è coltivare le proprie passioni, costruendo un’identità personale.

Come si devono preparare gli studenti a un mondo del lavoro in continua evoluzione?

Ci sono alcune cose immutabili, ma altre che stanno effettivamente cambiando. Almeno fino a sette anni fa, c’erano alcune dinamiche molto codificate. Il ruolo degli employer era molto definito e accettato, quasi dato per scontato. Non è più così: già prima del Covid, abbiamo cominciato ad assistere ad alcuni cambi di prospettiva, che hanno coinvolto anche i più giovani. Gli studenti hanno cominciato ad avere un atteggiamento molto diverso rispetto alla loro costruzione di un percorso professionale, per cui mi trovo a fare più orientamento al lavoro nei confronti delle aziende che dei ragazzi.

Sono molto critico sull’orientamento universitario attuale, che non pone un traguardo a qualche anno di distanza dalla laurea. È una limitazione non inserire uno stimolo rispetto a un percorso di carriera: l’obiettivo non è prendere trenta, ma costruire un’identità personale.

Quali sono le attività che le università possono proporre per contribuire allo sviluppo delle soft skills?

Dal ‘99 le università hanno cominciato a parlare di attività professionalizzanti che andassero ad arricchire la didattica, perché hanno percepito che c’era bisogno di avvicinare gli studenti a cosa succede fuori e di “far sporcare loro le mani”. La decisione di aumentare le attività e di inserire project work e case study, sono tutti tentativi che vanno in questa direzione. Noi siamo una struttura che si interfaccia con le aziende. L’anno scorso abbiamo organizzato più di 600 incontri con le imprese in un anno: vuol dire che ogni giorno, in media, in Cattolica, ci sono almeno tre aziende che vengono e dedicano il loro tempo agli universitari, che hanno infinite possibilità di confronto con persone che parlano di cose concrete.

Qual è la differenza tra conoscenze e competenze?

I docenti sono obbligati a spiegare che ad A segue B. La competenza, invece, è saper reagire a un mondo in cui ad A non segue quasi mai B. Ovviamente i corsi di laurea non possono diventare dei centri di formazione professionale. Ci sono, però, almeno due modi di affrontare l’università: la si fa per rimandare il momento dell’ingresso al mondo del lavoro oppure la si fa sapendo che si hanno veramente tante opportunità per “incasinarsi” l’esistenza che alla fine ripagano. Un funzionario di Confindustria qualche anno fa ha detto che le aziende non assumono laureati, ma persone. Io vedo un grosso spreco di talenti, perché tanti ragazzi ci mettono troppo tempo a capire qual è il loro percorso e in cosa sono bravi e non coltivano le loro passioni. Sia chiaro: si possono anche solo seguire le lezioni, studiare, prendere 30 e lavorare lo stesso. Ma quando avrà finito il percorso accademico, avrà delle conoscenze, non delle competenze.

Crede che la pandemia abbia frenato o incentivato lo sviluppo delle soft skills all’interno del percorso universitario?

Secondo me lo ha accelerato: tutto quello che crea crisi, ci fa soccombere o ci fa, al contrario, imparare a saltare più in alto. La pandemia ha velocizzato i processi di consapevolezza personale, ha fatto vedere che c’era un altro modo di affrontare le cose e che si poteva vivere anche al di fuori da schemi che erano fissati da decenni. Ci ha messo di fronte alla necessità di gestire situazioni diverse e ci siamo attrezzati. Ciò ha creato un’esplosione di opportunità con un effetto a catena che stiamo vivendo ancora adesso.

Chiara Trio