IL BURNOUT TRA LAVORO E FLESSIBILITÀ. Intervista a Sara Colasanto

Sara Colasanto si occupa di career development ed è un’employer branding specialist. In una lunga chiacchierata, ci ha raccontato l’importanza della flessibilità in un contesto lavorativo attualmente in evoluzione.

Sempre più negli ultimi anni si sente parlare di stress associato al mondo del lavoro. Ci sono dei fattori legati al contesto contemporaneo che possono aver influito sull’incremento dei casi di burnout?

C’è un cambiamento culturale e sociale in atto. Si parla sempre di più di salute mentale e questo genera un impatto inevitabile anche sul posto di lavoro. Le aziende iniziano a fare fatica nelle attività di recruiting, ad assumere e a trattenere chi è già in azienda, perché, soprattutto la Gen Z, è attenta a questioni quali smart working e work life balance e le condizioni socio-lavorative offerte dall’azienda diventano fondamentali per la scelta del posto di lavoro, dove, a meno che non si svolgano attività come freelance, si trascorrono mediamente dalle sei alle otto ore al giorno.

Uno dei fattori determinanti per la scelta del posto di lavoro diventa quindi la flessibilità e le aziende hanno dovuto prenderne atto.

Lo smart working è, quindi, una strategia che si può implementare per ridurre lo stress. Quali sono le altre strategie?

, certamente lo smart working è una delle possibili strategie. Ritorno sul concetto di flessibilità, nel quale possono rientrare anche le modalità di svolgimento delle attività lavorative e le politiche interne adottate dall’azienda.

Sono fondamentali, ad esempio, almeno una volta a settimana i momenti di équipe, che i manager dovrebbero incentivare, prestando attenzione al benessere mentale del dipendente. È giusto scindere tra vita e lavoro, però una leadership “gentile” può andare incontro ai bisogni di vita perché quello che ancora oggi si fatica a comprendere è che “un team felice è anche un team più produttivo”. In termini di efficienza, incentivare queste occasioni riduce le possibilità di burnout ed impatta positivamente sull’azienda. La produttività del proprio team è uno degli aspetti su cui vengono valutati i manager e i dirigenti, ma viene ancora concepita prevalentemente in termini quantitativi.

Oggi si parla tanto di settimana lavorativa di quattro giorni. Io sono d’accordo, ma comprendo che non possa essere applicata a tutti i settori. La cosa che è certa è che dovremmo imparare a lavorare per obiettivi e per task. Il setting lavorativo, poi, viene ancora troppo sottovalutato.

Qual è il confine sottile tra la normale fatica legata alla propria occupazione e il burnout?

Il burnout ha una sua definizione e sono stati fatti numerosi studi per riconoscerlo. Ci sono degli psicologi esperti nell’analisi e nella rilevazione del burnout. Vengono individuati alcuni dei sintomi più comuni quando si parla di tale fenomeno e vengono analizzate approfonditamente le cause per inquadrare lo stato psico-fisico della persona. Il burnout, ha, quindi, radici più profonde.

Chi si occupa dei rapporti con il pubblico è più a rischio burnout. In questi casi, si può stabilire una turnazione, si può monitorare periodicamente il personale tramite colloqui o possono essere offerti dei servizi a supporto, quali incontri con uno psicologo o con un life coach. Possono anche essere progettati percorsi di formazione che coinvolgano dipendenti provenienti da differenti aree dell’azienda.

Si trova d’accordo con l’idea di Domenico de Masi secondo cui l’obiettivo della politica economica dominante basata sul progresso sia l’infelicità?

Io non sono d’accordo in toto sul fatto che il progresso sia il male assoluto perché portatore in assoluto di infelicità. Il problema è lavorare per il progresso della collettività e stabilire quindi delle politiche economiche e sociali inclusive e portatrici di generatività.

 Chiara Trio