Accompagnati dal suono delle percussioni, assistiamo al trasformarsi della passione nella sua degenerazione tossica: l’ossessione. Fletcher vuole forgiare dei “grandi”. Ma a quale prezzo?
Whiplash racconta la storia di Andrew, un giovane e promettente batterista jazz, e del suo insegnante Terence Fletcher. La musica rappresenta la costante espressiva alla base di un rapporto che oscilla tra il conflittuale e una tacita, reciproca stima.
Questa pellicola ci induce a riflettere sul sacrificio, sulla formazione e sul successo, assieme ai suoi doverosi limiti. Per circa due ore viviamo in uno stato di tensione: è giusto sottoporsi a una guerra psicologica pur di ottenere riconoscimento? Fino a che punto si può parlare di sacrificio, e quando questo diventa autolesionismo fisico e psicologico?
Fletcher adotta una forma di leadership estrema, al limite dell’abuso. Urla, insulti, manipolazioni costruiscono le sue lezioni, che si trasformano in una guerra fredda fatta di sguardi e gesti impauriti da parte degli allievi, costantemente in stato di allerta. Il suo obiettivo? Spingere gli studenti oltre il limite, convinto che solo così emergeranno i veri talenti. Ma sono davvero i talenti a emergere, o solo soggetti rabbiosi con tendenze ossessive?
Andrew è mosso da una passione autentica: vuole eccellere, diventare “uno dei grandi“. Per farlo sacrifica tutto: amici, famiglia, salute. Elimina ogni fonte di serenità, come se questa non fosse funzionale al raggiungimento dell’obiettivo, anzi, come se rappresentasse un ostacolo. A un certo punto ci si domanda se l’oggetto del desiderio sia l’Olimpo oppure il riconoscimento di un maestro con cui instaura una forma di dipendenza tossica.
In realtà, lo stress cronico mina la lucidità, l’apprendimento e l’autostima. Come sottolinea anche l’OMS, lavorare in ambienti tossici può causare gravi danni a lungo termine.
Nel film, nessuno sa davvero gestire le emozioni: non Fletcher, che reprime ogni empatia, né Andrew, che finisce per vivere solo in funzione dello sguardo del maestro.
Fletcher incarna una figura che ancora oggi troviamo in contesti accademici, lavorativi e sportivi: quella del mentore autoritario, convinto che solo la sofferenza crei eccellenza. Si crea così un microambiente di regime dittatoriale, in cui vige la politica del terrore e dello stacanovismo. In questo contesto ci si comporta come automi, programmati per conoscere e sviluppare un unico aspetto della vita e delle proprie abilità; si abbandona il benessere psico-fisico olistico, necessario a ogni creatura vivente, e si riesce a superare ogni dolore solo grazie alla vista di uno pseudo punto di arrivo.
Una delle sequenze più drammatiche di Whiplash mette in scena in maniera magistrale questo concetto: Andrew, diretto verso un’importante esibizione orchestrale, subisce un grave incidente e la sua auto si ribalta dopo uno scontro violento. Esce dalla macchina e corre disperato verso il teatro, con le mani tumefatte e il volto insanguinato; sale sul palco in condizioni critiche, determinato a suonare, ma non riesce a tenere il tempo, le bacchette gli sfuggono. Fletcher lo guarda con disprezzo. Andrew crolla. La resa attoriale è eccellente: lo sguardo del mentore, tanto bramato, si tramuta nella delusione più temuta.
Qui assistiamo al punto di rottura fisico e psicologico.
Andrew finisce per superare i propri limiti, ma a un prezzo altissimo. La sua è un’ascesa verso il successo e il riconoscimento della persona che stima di più, ma anche un’escalation verso il burnout.
È possibile raggiungere l’eccellenza senza annichilimento? Il film lascia la domanda aperta.
Sicuramente il sudore, il sacrificio, la determinazione sono la linfa che ha sempre mosso i mortali eroi, ma questa pellicola ci lascia un monito tanto sottile quanto illuminante: la forza interiore non annichilisce, solleva; non imbruttisce, ma allieta. Formare non vuol dire spezzare.
Gloria Campanella
