Paola Rizzi, giornalista e vicepresidente dell’Associazione GiULiA, ci parla del ruolo del giornalista oggi, delle sfide del gender gap e della rappresentazione delle donne sui media.
Paola Rizzi è una giornalista, vicepresidente dell’Associazione GiULiA (Giornaliste Unite Libere Autonome), che si occupa di gender gap nelle redazioni e del contrasto agli stereotipi nella rappresentazione delle donne sui media e che fa parte del coordinamento della Rete Nazionale contro l’odio.
Come definiresti il ruolo del giornalista oggi e permangono disparità di genere?
Il giornalista è un professionista che ha il compito di raccogliere le notizie, di verificarle e di diffonderle attraverso vari mezzi, avendo come unici vincoli il rispetto della verità sostanziale dei fatti, della dignità delle persone e l’interesse pubblico della notizia.
Nel contesto attuale, il giornalista professionista, che fino a qualche decennio fa era l’unico intermediario tra i fatti e l’opinione pubblica, deve vedersela con un ambiente mediatico molto più complesso, dominato dai social network. Questo rende molto più complicata la verifica delle fonti e il contrasto alle fake news. Il risultato è un panorama dell’informazione, che vede crollare la fiducia nei confronti dei media. La disparità tra giornalisti e giornaliste è un dato oggettivo: se si considerano i quotidiani, su 60 testate solo due sono dirette da donne, mentre ormai le donne rappresentano il 50% dei giornalisti. Esiste un’oggettiva discriminazione e il sessismo all’interno delle redazioni è ancora molto presente.
Qual è la tua esperienza con la Rete Nazionale contro l’odio?
La Rete Nazionale contro l’odio è un’esperienza unica di networking, dove diversi soggetti condividono competenze e buone pratiche nella loro azione di contrasto al discorso d’odio, che ha rafforzato anche l’azione di advocacy della mia associazione.
Quali sono le principali sfide che affrontano i giornalisti oggi?
Manipolazione, fake news, censura, intimidazioni attraverso le querele temerarie e l’odio online, concentrazione dei media in pochi gruppi, che limitano il pluralismo e tendono a condizionare il lavoro indipendente del giornalista e nel caso del servizio pubblico asservimento alla linea del governo di turno. La sfida più grande è quella costituita dalle centrali di disinformazione, che agiscono attraverso i social network, i quali non hanno certo a cuore l’interesse pubblico.
In che modo pensi che la comunicazione possa contribuire a combattere i discorsi d’odio e a promuovere la giustizia sociale?
Ogni volta che sui media si contribuisce a contrastare gli stereotipi e si utilizza responsabilmente il linguaggio e la rappresentazione dei fatti, si fa un passo in avanti verso un racconto che non discrimini: al contrario, se usiamo la parola “clandestino” quando parliamo di richiedenti asilo, replichiamo uno stereotipo.
Hai qualche esempio di iniziative o di progetti specifici, che ritieni abbiano avuto un impatto positivo nella lotta contro l’odio e la discriminazione?
Il Manifesto di Venezia del 2017, un vademecum per una narrazione priva di stereotipi delle donne e della violenza di genere, è una buona pratica ancora oggi assolutamente attuale e punto di riferimento per molti giornaliste e giornalisti.
Che consigli daresti alle giovani giornaliste che desiderano entrare nel settore e affrontare le sfide attuali?
Il mondo dell’informazione è certamente più difficile di quando io ho iniziato, ma c’è assolutamente bisogno del contributo delle donne nel mondo dei media, capaci di far sentire la loro voce originale, senza adeguarsi a modelli maschili. Serve uno sguardo plurale sulla realtà e serve anche uno sguardo allargato.
Per questo chiunque voglia fare il giornalista oggi, deve fare un’esperienza all’estero, abbracciando prospettive diverse.
Nicola Milani
