La maestra d’asilo torinese. La giovane seviziata da Alberto Genovese. Età e provenienza differenti: cosa le accomuna? L’incessante gogna mediatica che da settimane le tormenta. Commenti, giudizi, critiche, i media non si risparmiano. L’identità di queste donne viene continuamente abusata e manipolata, come se il revenge porn e lo stupro subito non fossero sufficienti. Cerchiamo di catturare insieme le reazioni del web.
La stampa da sempre inquadra il sentiment dei propri lettori e dai recenti commenti delle maggiori testate emerge un dato: l’emancipazione sessuale tanto decantata è lontana, quantomeno per le donne. Il binomio freudiano, che vede la donna o come una santa o come una prostituta, è ancora ben radicato, pronto a emergere quando l’atteggiamento femminile deraglia dai ‘binari’ del tradizionalismo imposto.
Gli esempi sono molteplici. Impossibile non citare la difesa di uno degli accusati per la divulgazione del video hard della maestra. Su La Stampa dichiara: ‘Lui ha sbagliato, ma l’ha fatto per una goliardata da uomo. Non posso tollerare che chi si occupa dei miei figli faccia determinate cose. Se mandi filmati osé devi mettere in conto il rischio che qualcuno li divulghi’. Questo frammento dimostra una chiara distorsione della narrazione: si colpevolizza la vittima per la sua ‘leggerezza’ (il termine esatto sarebbe ‘fiducia’) e per le sue scelte intime (che in quanto tali dovrebbero restare private) e si legittima il colpevole, il quale ha responsabilità morale e penale dell’atto (dal 2019 la diffusione illecita di materiale a sfondo sessuale è reato). Il medesimo meccanismo giustificatorio lo rintracciamo nel caso di Alberto Genovese. Vittorio Feltri, su Libero, definisce la diciottenne stuprata ‘ingenua’ e domanda: ‘entrando nella camera da letto dell’abbiente ospite cosa pensava di andare a fare, a recitare il rosario? Non ha sospettato che a un certo punto avrebbe dovuto togliersi le mutandine senza sapere quando avrebbe potuto rimettersele? Tanto più che Alberto godeva della fama di mandrillo’.
Il martellante victim blaming, ovvero l’incriminazione della vittima con conseguente deresponsabilizzazione del colpevole, produce una reazione sui social: le influencer più celebri rompono il silenzio e fanno quadrato. Carlotta Vagnoli (femminist blogger navigata) e Chiara Ferragni analizzano, attraverso le stories, le ragioni che portano al ritornello ‘si, però lei se l’è cercata’, immancabile classico in caso di stupro o revenge porn. Emergono le radici di un sistema culturale malato: rappresentazioni mediatiche alterate e mancanza di coesione tra le donne ne sono la causa principale. Instagram si trasforma in uno spazio di riflessione in grado di permettere a tutti di raccontare la propria esperienza. Uno spiraglio luminoso all’interno di una perenne raffigurazione distorta del corpo e delle responsabilità femminili.
Arriviamo al 25 novembre 2020, Giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Il mese si conclude con un bilancio infelice visto i recenti fatti di cronaca, ma con una consapevolezza: le narrazioni tossiche necessitano una riforma e i social, utilizzati coscienziosamente, possono fare da cassa di risonanza per una nuova forma di divulgazione più cruda (e meno paternalistica).
Serena Curci