Sentiamo spesso parlare di linguaggio inclusivo, ma perché è così importante? Sembrerebbe una questione di poco conto, ma l’inclusività è un percorso che passa anche attraverso il linguaggio.
Innanzitutto, che cosa intendiamo con linguaggio inclusivo? Potremmo definirlo un linguaggio libero da pregiudizi, stereotipi e discriminazioni verso determinate categorie di persone.
Le parole che scegliamo di utilizzare nella nostra quotidianità non rispecchiano un semplice “si è sempre detto e scritto così” ma vanno a scavare e a fare da specchio alla realtà che ci circonda, non sempre scevra da preconcetti insiti da tempo nella nostra società.
La difficoltà nell’adottare un linguaggio inclusivo è più che comprensibile, non è facile cambiare le nostre abitudini e il nostro modo di esprimerci adottato fin dalla nascita. Tuttavia, la lingua è in continuo movimento e tutt’altro che statica come spesso viene percepita.
Come sostiene la sociolinguista Vera Gheno «è molto difficile per tutti accettare che una lingua non sia immutabile; eppure, proprio la capacità di adattarsi a descrivere una realtà in perenne movimento è segno del suo buono stato di salute. In altre parole, una lingua che cessa di mutare in base alle esigenze dei suoi parlanti è una lingua avviata verso la sua estinzione».
L’evolversi della lingua dovrebbe quindi rasserenarci in quanto segno della sua buona salute e del fatto che la società in cui viviamo sta cambiando: non è una sorpresa che proprio in questo momento storico, dove le tematiche relative all’inclusività sono molto discusse, si avverta la necessità dei parlanti di adottare un nuovo linguaggio più inclusivo.
Non esiste una vera e propria regola quando si parla di inclusività nella lingua scritta; tuttavia, nel corso del tempo sono state adottate diverse strategie per metterla in atto.
La più largamente utilizzata e discussa in questo momento all’interno dei social network (Instagram in particolare) è la scelta di impiegare lo schwa. Di cosa si tratta? Di un suono vocalico neutro che banalmente potremmo descrivere come nient’altro che una “e” rovesciata (ə) che fonde le desinenze maschili e femminili dell’italiano rendendole neutre. Un esempio è il semplice “ciao a tutti” che diventa “ciao a tuttə”. Facile no?
Interessante porre l’accento su un caso che fece abbastanza scalpore: questa soluzione è stata anche adottata in un post Facebook ufficiale di un comune in provincia di Modena, dove in occasione della riapertura delle scuole a seguito del lockdown si scrive «A partire da mercoledì #7aprile moltǝ nostrǝ bambinǝ e ragazzǝ potranno tornare in classe!» a dimostrazione del fatto che questa strategia sembra essere tra le più favorite negli ultimi tempi, anche in contesti che possiamo definire più formali.
Altre forme alternative, più comuni nei contesti quotidiani e spesso istituzionali, sono strategie in cui tutti (o tuttə?) bene o male ci siamo imbattuti: le più classiche sono la tipica barra come in “cari/e”, le parentesi “inquilini(e)” e l’asterico “tutt*”.
Meno comuni sono la chioccola “interessat@” e la x/y “benvenutx/benvenuty”. In alcuni casi si ritrova la u come in “caru tuttu” o la semplice omissione dell’ultima lettera “car tutt ”.
Altre soluzioni che non prevedono una modifica grafica sono le semplici perifrasi attraverso la scelta di parole che non vanno declinate né al maschile né al femminile, o un semplice raddoppio come in “cari tutti e care tutte”.
Le soluzioni presentate sono molteplici ma la questione è ancora molto discussa e fonte di pareri controversi. Ad ogni modo, perché no? Perché non iniziare a sperimentare?
Noemi Saracini